Open Innovation: le domande da porsi prima e durante

Gino Tocchetti
15 min readMar 13, 2021

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“Il Senso di Smilla per la Neve”, di Peter Hoeg (1996)

Possiamo permetterci di parlare di innovazione come facciamo con la neve? Gli inuit che nella neve vivono e prosperano, usano molti nomi diversi per i diversi tipi di neve, che noi forse non riusciamo a distinguere (K. David Harrison, “The Last Speakers”). Analogamente, non faremmo affidamento su una singola tattica di marketing per la vita di un’organizzazione, o su una singola fonte di finanziamento, e dunque abbiamo bisogno di costruire un portafoglio di strategie di innovazione progettate per compiti specifici.

Due importanti report sull’innovazione in Italia, editi già da molti anni, hanno scelto di focalizzare l’ultima edizione (quasi) esclusivamente sull’Open Innovation. Nel Rapporto COTEC 2021, si riporta che oggi circa il 75% delle grandi imprese italiane hanno già adottato approcci di Open Innovation. Se aggiungiamo che la prima edizione del libro di Henry Chesbrough, “Open Innovation: Researching a New Paradigm”, è stato un successo 15 anni fa, ed è stato ripubblicato più volte, possiamo dirci tutti d’accordo che si deve innovare, e che per farlo, le aziende devono aprirsi a risorse esterne. Se però ci fermiamo a questo, rischiamo di parlare dell’innovazione alle aziende, come se parlassimo della neve agli esquimesi.

Dai report e dall’esame delle principali iniziative (se ne possono censire molte decine in Italia) appare evidente che la contaminazione tra le corporate e l’ecosistema delle startup e PMI innovative stia diventando uno dei principali strumenti per fare open innovation, anche da noi, e che le interconnessioni assumono varie forme. In base ai dati forniti dall’Osservatorio Open Innovation 2020, oggi si contano in Italia circa 8000 partecipazioni di corporate nell’ecosistema, e questo è confermato anche da investimenti pari a oltre 1700 milioni da parte di corporate in startup e PMI innovative, negli ultimi 10 anni.

L’entusiasmo, se di questo si tratta, non faccia dimenticare o sottovalutare perché l’azienda deve innovare, per quale concreto obiettivo, con quale strumento conviene generare innovazione, quale processo è più efficace per trasformarla in valore, quando e come prendere parte all’ecosistema startup, cosa aspettarsi e cosa promettere… Domande ineludibili se vogliamo che la propensione all’innovazione si diffonda maggiormente, senza escludere le piccole e medie imprese, attraverso pratiche opportune e promettenti, dunque non solo a scopo esplorativo e sotto l’influenza di mode passeggere.

Cercando una categorizzazione efficace, per avere una mappatura che sia anche una guida, nel Report 2020 dell’Osservatorio Open Innovation viene proposta una griglia nella quale le iniziative sono disposte per requisiti crescenti (conoscenze ed esperienza, da un lato, risorse finanziarie dall’altro). Viene suggerita così una roadmap che verrebbe percorsa dall’azienda man mano che ne riesce a disporne in quantità sempre maggiore.

“Evoluzione e modelli”. In Report 2020 dell’Osservatorio Open Innovation

Ho qualche dubbio che si possa proporre una roadmap one-fit-all considerando la varietà di tipologie di aziende, e quindi di appetiti e obiettivi di innovazione. Non essendo i passi e i traguardi di un tale percorso lineare, validi per tutti, risulta anche poco significativo il confronto tra diversi posizionamenti, e parlare quindi di anticipo o ritardo dell’uno rispetto all’altro. Dall’esame di qualche decina di casi nazionali, presi tra i più significativi, e nonostante una inevitabile scarsità di dati che rende difficile l’analisi, arrivano suggerimenti per una mappatura alternativa.

Partiamo da un noto schema di navigazione nell’incertezza, di Greg Satell in “Mapping Innovation: A Playbook for Navigating a Disruptive Age” (2017). Si basa su due domande: sappiamo definire bene il problema che vogliamo risolvere? sappiamo quali ambiti di competenza vanno affrontati per fornire una soluzione? Quindi ho introdotto qualche ritocco, per inserire riferimenti al tema specifico dell’open innovation.

“4 Types of Innovation”, modificato con un focus sulla open innovation. Originale In “Mapping Innovation: A Playbook for Navigating a Disruptive Age”, Greg Satell, McGraw-Hill 2017

Sustaining innovation

La maggior parte delle innovazioni avviene cercando di migliorare qualcosa che stiamo già facendo: i problemi sono ben definiti ed è ben definito l’ambito delle competenze necessarie per risolverli. Generalmente le strategie per sostenere l’innovazione si possono attuare internamente all’azienda, essendo ragionevole aspettarsi che disponga del know how necessario per competere nel proprio campo, salvo incrementi e acquisizioni dall’esterno qualora si verifichi qualche carenza.

E’ dunque principalmente una questione organizzativa, di nuove competenze e nuova cultura, per evitare di soffocare il potenziale di innovazione già presente, e anzi favorirne l’espressione (metodologia lean e agile, design thinking e pensiero progettuale, approccio sperimentale, orientamento al cliente).

Assodato questo fattore abilitante imprescindibile, è comunque utile sfruttare le risorse esterne all’azienda, anche con semplici iniziative. Per aziende piccole, con budget limitati, alcune prassi permettono di ricevere utili suggerimenti dall’esterno, soprattutto dalla base dei clienti. Escludiamo subito la creazione di siti web predisposti alla ricezione di feedback, aperta a tutti: un metodo inefficiente e inefficace che procurerebbe una grande quantità di feedback, in maggioranza privi di concretezza.

Più utili sono le “call for solution”, ovvero campagne dove viene proposto un problema e promesso un premio in cambio del suggerimento di una soluzione (molto usate nel settore del design). In modo simile si possono lanciare campagne che coinvolgono gli studenti, previo accordo con qualche Università. Se si vuole attingere ad una comunità più allargata, si possono usare le piattaforme indipendenti internazionali, create a questo scopo, come Innocentive (in questo caso si parla di crowdsourcing). Avendone la forza, si può creare una piattaforma proprietaria, come “OpenInnovability.com” di ENEL, che conta 400000 membri attivi.

“S-curves of innovation” (modificato). In “The Innovator’s Dilemma”, Clayton Christensen, Harvard Business School Press 2016

Breakthrough innovation

Quando il problema è ben definito ma diabolicamente difficile da risolvere, diventa necessario acquisire competenze non convenzionali. Anche la complessità dei mercati sempre crescente e l’evoluzione continua delle tecnologie, pur senza arrivare a saltare sulla nuova curva evolutiva (vedi figura), porta all’esigenza di accedere continuamente a competenze e strumentazioni esterne. L’open innovation acquista qui un ruolo chiave, e si può concretizzare attraverso accordi di collaborazione con realtà di eccellenza che sarebbe difficile e costoso replicare internamente, se non impossibile.

Finchè si parla di tecnologia e di soluzioni basate sulla tecnologia, si tratta di partnership che vedono coinvolte l’azienda e laboratori, centri di ricerca, politecnici universitari, parchi scientifici e tecnologici, e altre iniziative simili (locali, nazionali e internazionali). Si possono registrare un’ampia gamma di formule, dagli accordi mirati con alcuni centri, alla partecipazione a vaste reti di innovazione nazionali e globali, dalla sponsorship alla cofondazione. In sostanza l’azienda può scegliere di attingere solo, o di collaborare in ottica precompetitiva, o arrivare a promuovere il progresso del proprio ecosistema in ottica win win.

Sono iniziative alla portata anche di piccole medie aziende, a partire da qualche decina di milioni di fatturato in su. Vedi in Italia esempi come BTicino, ArredoInox, Dedagroup, Dompè, e sotto i 100M di fatturato, Fluid-o-tech, Cosberg, Soliani...

Quando però la complessità del problema da risolvere tocca anche gli aspetti di mercato (comportamenti e desideri dei consumatori, nuovi bisogni emergenti, nuove modalità di test product-market fit, canali e comunicazione digitali) occorre identificare partner di natura differente, capaci quindi di affrontare il problema da svariati altri punti di vista, e di applicare differenti competenze.

I migliori laboratori di ricerca in questo ambito sono oggi gli incubatori e acceleratori di startup, e gli Innovation Hub (o altro nome simile, facente riferimento a “factory”, “valley”, o “contamination”…). Il punto in comune è che le startup devono necessariamente mettere il cliente al centro, applicare metodologie appropriate di derivazione lean per comprenderne problemi e bisogni, utilizzare collaudate tecniche di testing, mantenere la massima velocità di esecuzione e l’orientamento al risultato di business. Alcune startup inoltre, sperimentano l’applicazione di nuove tecnologie a casi concreti, e dunque offrono l’occasione di una preziosa validazione della loro “marketability”.

D’altra parte le aziende che hanno per obiettivo l’ “innovazione rivoluzionaria” nell’ambito del proprio core business, guardano spesso alle startup in modo opportunistico, pur fornendo loro risorse finanziarie e altre che derivano dal loro più solido posizionamento nel mercato. L’intenzione è quella di imparare per contaminazione assorbendo dall’esperienza della startup: nuovi servizi da integrare nell’offerta, conoscenze preziose e nuove pratiche efficaci, interessanti applicazioni tecnologiche, dimostrazioni di opportunità di business, e in qualche caso anche giovani talenti.

Nintendo’s Virtual Boy, un tentativo fallito di introdurre la realtà virtuale nel mondo dei giocattoli (1995–1996)

Le formule con cui le aziende si avvicinano alle startup, in questo caso, comprendono l’adesione agli Innovation Hub, dove possono seguirle da vicino, condividere l’attività di sperimentazione, o addirittura affiancarle nel loro sviluppo. In Italia ci sono numerosi esempi, la cui differenziazione dipende soprattutto dai fondatori e dal loro sincero obiettivo. Vedi Talent Garden, HFarm, e PoliHub, CLab Trento, CLab UniCA, Innovation Factory di AREA, Innovalley Val di Sangro, e anche TIM WCap, Bio4Dreams.

Un’altra formula molto utilizzata è la sponsorizzazione di hackathon e startup competition, che possono esssere organizzate da una varietà di attori, che vanno dalle istituzioni pubbliche regionali, nazionali ed europee, agli organizzatori di festival e grandi eventi, a fondi di venture capital interessati al seed investment. Dove c’è capacità di investimento, la corporate si può muovere autonomamente, come Terna, per esempio, che ha messo in campo numerose iniziative diversificate di questo tipo.

Si può arrivare quindi alle sponsorizzazioni di incubatori e acceleratori indipendenti, promuovendo eventualmente call su tematiche verticali di maggior interesse. Vedi tra tutti il caso di BNL Gruppo BNP Paribas, Accenture, Sara e Lazio Innova che sono attualmente sponsor di Luiss Enlabs.

Ci sono poi le collaborazioni dirette con singole startup che promettono di esplorare aree di applicazione di interesse per le aziende, le quali, in cambio, garantiscono sostegno nella fase early stage. Vedi tra i casi italiani, Lavazza, aiutata da Plug&Play nella fase di scouting, che ha avviato una sperimentazione con Wonderflow, per aumentare la customer experience e ottimizzare la strategia di sviluppo dei prodotti, sfruttando la capacità di analisi ed elaborazione dei feedback.

In a presentation of Dave McClure, 500 Startups

Vengono avviati anche “corporate accelerator”, ovvero programmi di accelerazione realizzati dalla corporate, per ricreare le condizioni affinché giovani talenti possano esprimere la propria attitudine imprenditoriale (intrapreneurship), e sviluppare idee ritenute interessanti per l’azienda. Sono iniziative “aperte” perché prevedono il supporto di coach e advisor interni ed esterni, e perché ospitate da strutture esterne che facilitano la contaminazione con l’ecosistema.

Permettono di generate le conoscenze ed esperienze utili a identificare e sfruttare concrete opportunità di business: se va bene, l’azienda si impegna nel sostenere le startup nelle successive fasi di sviluppo, altrimenti, nei casi meno fortunati, beneficia dell’opportunità di mutuare gli asset creati nella propria organizzazione interna e nel core business.

Se da un lato hanno il vantaggio di sostenere lo sviluppo di startup nella sfera di influenza della corporate, proprio questa promiscuità dal punto di vista organizzativo, insieme alla difficoltà di introdurre un sistema di misurazione dei benefici adeguato e confrontabile con i KPI utilizzati per gli altri processi aziendali, rischia di comprometterne il risultato di business.

Anche se non sono mancati all’estero casi di grande successo, come N26 uscita dall’acceleratore della tedesca Axel Springer (chiamato anch’esso “Plug and Play”), alcuni sono stati trasformati in acceleratori aperti e “meno dipendenti” dalla corporate. Recentemente, negli USA, si stanno riproponendo versioni aggiornate di questa formula. In Italia, vedi i casi non proprio recenti, di TIM WCap, Sella Lab e Gala Lab, poi aperti all’esterno, quello di ACEA Innovation Garage ospitato in TAG Roma, e la sperimentazione avviata da Electrolux Professional.

Significato della “disruptive innovation” in estrema sintesi

Disruptive innovation

Capita anche di disporre di competenze ben definite, ma di affrontare problemi che non lo sono. Questo è il tipico caso di un’azienda che pur essendo molto brava nel proprio core business, a causa dell’evoluzione del mercato di riferimento (gusti ed esigenze dei clienti che cambiano velocemente, concorrenti sempre più agguerriti, tecnologie in rapida evoluzione…), si trova a migliorare sempre più i propri prodotti ma riscontrando un interesse sempre minore da parte dei clienti.

Clayton Christensen ha coniato per questi casi, in presenza di salti da una curva di evoluzione tecnologica ad un’altra, l’espressione “disruptive innovation”, nel suo libro The Innovator’s Dilemma (la prima edizione risale al 1997!). Ma è stato più recentemente, grazie alle illuminazioni di Steve Blank, Eric Ries e Alex Osterwalder, per citare solo i più famosi, che si è focalizzato sull’innovazione dell’intero modello di business, e non solo del prodotto. Infatti l’evoluzione tecnologica (il “digital” e il “social” soprattutto, ora anche AI, IOT e AR/VR e altre) non hanno reso possibile solo una continua innovazione a livello di prodotto, ma al livello della stessa architettura dei mercati.

Ha così preso corpo una metodologia per condurre in modo appropriato ed efficiente la sperimentazione necessaria per sviluppare nuovi modelli di business sostenibili. Non solo, da quel momento le startup e le realtà che ad esse forniscono sostegno allo sviluppo, hanno conquistato il palcoscenico dell’innovazione, perché rappresentano proprio i “laboratori specializzati” nell’applicazione di queste metodologie, dove si eseguono le attività di ricerca e test (validazione).

In questi casi la motivazione delle corporate non è orientata ad una virtuosa contaminazione o ad una proficua partnership, ma proprio al successo di business della startup, avendo riconosciuto il vantaggio strategico che ne deriva per il proprio core business. E’ sottintesa quindi la motivazione ad acquisirne quote sempre maggiori, lungo il percorso di sviluppo.

Si intende così evitare di trovarsi come Nestlè che ha compreso tardi il trend solidamente in crescita del “meal delivery” e il potenziale irrinunciabile nello sviluppo del proprio core business, e ha dovuto investire 950 milioni di dollari in una scaleup del settore, Freshly (trasformandola in unicorno), pur di assicurarsi un partner che le permettesse di essere in gioco in quel campo. L’idea è di anticipare i tempi, ed entrare prima nel capitale della startup, ad un costo evidentemente molto più basso.

“Types of business model innovation”. In “Journal of Cleaner Production 198”, M. Geissdoerfer et al., 2018

Analoga strategia, con le dovute differenze dimensionali, si può riconoscere in Italia, nell’operazione di Ebano che finanzia Petme, capace di aggregare una community di oltre 750000 membri, potenzialmente interessati alla propria offerta editoriale. Anche nel caso di Megamark, una catena di supermercati che ha investito in Bauzaar, attiva anch’essa nel mercato dei prodotti per animali che cresce a doppia cifra, e che possono essere inseriti nell’offerta dei propri negozi. Da ricordare anche Seeweb che aveva sostenuto la crescita di Docebo, una delle prima piattaforme di elearning.

Possono esserci anche altri interessi. In altri casi, l’obiettivo è sviluppare servizi innovativi che possano arricchire e rendere più competitiva l’offerta della stessa corporate. Vedi in Italia, Enel che finanzia lo spin-off di Powergift che permette di tenere sotto controllo il ROI di impianti di pannelli fotovoltaici, o A2A che affianca Greyparrot per la digitalizzazione delle linee di separazione rifiuti, o Fluid-o-tech che lancia Dolphin Fluidics, attraverso F-Lab, dedicata alla progettazione e produzione di piattaforme di fluidica intelligente.

In altri casi ancora, l’interesse è legato all’impegno ad introdurre soluzioni “ad alto impatto sociale” nel settore di interesse, ottenendo così il completamento della propria missione ed un positivo ritorno di immagine. Vedi Tim Ventures che investe in WeSchool per lo sviluppo della didattica a distanza nelle scuole italiane, o Banca Generali che investe in Treedom, la startup focalizzata nella riforestazione.

D’altra parte non si hanno ancora in Italia esempi di Corporate Venture Building (chiamiamoli CVB), che sono invece numerosi all’estero, e indicati da McKinsey come la nuova frontiera dell’innovazione. Richiedendo più coinvolgimento della corporate rispetto ad un’operazione di M&A fatta col CVC, e al tempo stesso impegnandola più concretamente nel successo della startup rispetto al caso di sponsorship ad acceleratori più o meno indipendenti, i CVB hanno effettivamente caratteristiche distintive.

Le principali prerogative sono: lanciare startup sulla base di idee di business selezionate con strumenti più robusti, comunque in linea con le strategie dell’azienda; accelerare un minore numero di startup in parallelo, rispetto ad un corporate accelerator, ma con maggiori probabilità di successo; creare un team di “professionisti” esperti, e non composto solo dai più bravi intrapreneur già in organico; garantire quindi tempi più rapidi nello sviluppo della fase di validazione e growth, e costi e fabbisogno finanziario minore.

“6 Innovation Models Comparison”. In “Why Corporate Venture Building is the best model for disruptive innovation”, Byld 2018

In particolare, la velocità e l’affidabilità rendono i CVB molto interessanti per la corporate, essendo costantemente sotto il pressing della chiusura di bilancio, e alle prese con la misurazione dei KPI. Resta il nodo della promiscuità già citato per i corporate accelerator, che richiede alla corporate una capacità di concentrarsi al massimo nell’esecuzione del proprio core business, e contemporaneamente assicurare il contesto più fertile e senza intoppi per le startup nel CVB (ambidestrismo).

Resta anche il rischio che la corporate subisca un bias nella valutazione dei pivot necessari alla startup nel suo percorso di validazione, lasciandosi tentare da obiettivi “collaterali” (di immagine, di marketing, di partnership strategiche, di recruiting) o dal prevalere di interessi legati allo sviluppo del core business.

Cutting-edge Research

Se non sono definiti nè il problema da risolvere nè l’ambito delle competenze necessarie, è perché ci troviamo nel regno dell’esplorazione pionieristica, e ci muoviamo verso l’ignoto. Perché dovremmo farlo? Due fattori sono facilmente riconoscibili: uno legato all’evoluzione esponenziale delle tecnologie che apre continuamente nuovi scenari, e l’altro più legato alla nostra capacità (e bisogno) di immaginare e creare nuovi mondi.

Da un lato, solo corporate di grande dimensione possono permettersi di finanziare ricerche sulle tecnologie più avanzate, molto prima che siano definite le ricadute in termini di applicazioni commerciali. Ad aziende più piccole rimane solo la possibilità di accedere a conoscenze riportate dal mondo della ricerca avanzata, attraverso programmi di technology transfer, iniziative chiamate “scienziati in azienda”, o accedendo a portali creati per diffondere i risultati della Ricerca finanziata con fondi pubblici.

D’altra parte la sfida di immaginare nuovi mondi è stata resa molto più democratica dal “digitale” (che permette di scomporre e ricomporre ogni cosa), e dalla diminuzione dell’investimento minimo richiesto per avviare una sperimentazione.

Siamo nella situazione rischiosissima in cui l’azienda propone risposte a problemi che l’utente non avverte chiaramente, e a desideri che non sa ancora di avere. Anche se si tratta di una pratica assolutamente deprecata a chiunque volesse lanciare una startup su queste sabbie mobili, nei casi in cui l’azienda disponga di sufficiente forza e capacità di presidio del mercato (o nei quali riesca a convincere qualche investitore pazzo), questo esercizio di immaginazione può effettivamente prendere forma.

Drones To Plant Millions of Trees. Photo courtesy of Biocarbon Engineering

In fondo è proprio perché qualcuno ha osato tanto, che oggi usiamo il telefono senza tastiera, indossiamo visori per la realtà aumentata e virtuale, installiamo cobot un po’ dappertutto, ci serviamo di droni per qualunque tipo di servizio eseguito in aria, e un giorno viaggeremo in tubi sotterranei e andremo a colonizzare Marte.

Inutile dire che anche in questo caso, le startup sono probabilmente il migliore sistema per generare e valorizzare questo tipo di innovazione. Si tratta di situazioni distinte da quelle viste per la disruptive innovation. La principale differenza è la mancanza di una base di clienti che esprime una manifesta sofferenza per il problema che vogliamo risolvere, e per la mancanza di soluzioni valide. In sintesi possiamo dire che in quel caso c’è un problem-solution fit validato, in questi poco più di una scommessa chiamata sogno.

Conclusioni

Sappiamo che l’innovazione è necessaria all’azienda per rendere più efficace l’esecuzione del proprio modello di business, con nuovi prodotti, sviluppati con nuovi processi, offerti a nuovi mercati…, e sempre più spesso, per abilitare ed eseguire nuovi modelli di business, resi possibili e necessari dai cambiamenti dei comportamenti e desideri dei consumatori, per effetto delle nuove tecnologie e della digitalizzazione in primis, ma anche a causa delle trasformazioni profonde della società e dei mercati per effetto di fattori macroeconomici, geopolitici, ambientali, e ora anche sanitari.

L’open innovation è riconosciuta come una buona risposta, se non addirittura LA risposta necessaria. Detto questo, i modi per tradurre la strategia in pratica sono molti, e la scelta delle iniziative più appropriate dipende evidentemente dall’azienda, dalle sue dimensioni e risorse, dalle sue ambizioni. Non è opportuno immaginare che ci sia un unico percorso, lungo il quale riconoscere chi è più avanti o indietro, ma è indispensabile interrogarsi sui tipi di innovazione più utili e necessari, e orientarsi sulle buone pratiche che ad essi corrispondono. Se le esigenze sono molteplici come le iniziative intraprese, diventa cruciale coordinarle (come in A2A, per fare un esempio italiano).

Se l’interazione tra le aziende e l’ecosistema startup è ormai diventato un presupposto indispensabile per innovare, anche in questo caso sono diverse le formule per farlo, utili ciascuna alla generazione di diversi tipi di innovazione. Non tutte le startup sono uguali, uno startup accelerator non è un venture builder, e la sponsorship di una startup competition non è un investimento importante a sostegno della fase di growth di una scaleup.

Se le aziende sono affette da un virus che causa l’incapacità di innovare, possiamo dire che serve un mix di vaccini, ciascuno più adatto ad una particolare fascia di aziende/pazienti. Purtroppo oggi prevale un dibattito piuttosto superficiale, che indica come migliore questo o quel vaccino sulla base di interessi poco chiari e di mode ingiustificate. Non mancano nemmeno i “no-vax”, che trovano in questa confusione argomenti per il loro scetticismo. L’auspicio è che si faccia pulizia a livello di informazione, si condividano le pratiche per poterle studiare scientificamente, e che si possa procedere col “piano vaccinale” il più speditamente possibile.

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[Fonti suggerite:

  • Henry Chesbrough, “Open Innovation: The New Imperative for Creating And Profiting from Technology”, Harvard Business School Press 2006
  • Clayton Christensen, “The Innovator’s Dilemma”, Harvard Business School Press 2016
  • Greg Satell, “Mapping Innovation: A Playbook for Navigating a Disruptive Age”, McGraw-Hill 2017
  • (Mind The Bridge), “Open Innovation Outlook 2021”
  • (COTEC), “2021 Open Innovation Report”
  • (Vari), “2020 Quinto Osservatorio sull’Open Innovation e il Corporate Venture Capital Italiano”]

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Written by Gino Tocchetti

Business Design, Corporate Innovation, Strategy Advisor

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