The Brutalist, opera epica quasi mitologica
La prima cosa che colpisce di questo film, man mano che i dettagli delle scene ritornano in mente, leggendo le interviste e le recensioni, e parlando con amici appassionati di cinema, è che sfugge a qualsiasi definizione pretenda di contenerlo. Un film così ricco e complesso, e in alcuni passaggi equivoco, che anche una valutazione attenta fatica a coglierne ogni sfumatura, lasciando spesso una sensazione di sopraffazione.
Solo le grandi opere epiche o i capolavori della letteratura hanno saputo maneggiare tanto materiale umano, storico, culturale e artistico. E la potenza simbolica della trama e dei suoi protagonisti ne fanno un esempio di mitologia contemporanea.
Potenzialmente ne ha per tutti. Cerchi il dramma personale, la caduta e la redenzione? C’è. Cerchi la complessità e la problematicità dei rapporti interpersonali? C’è. Cerchi la sofferenza e la solitudine dell’artista? C’è. Cerchi lo sguardo storico nei riferimenti sociologici e nei dettagli delle ambientazioni e dei costumi? C’è. Cerchi i grandi temi della vita, l’amore, la realizzazione di sé, il potere e il denaro, la resilienza e la dannazione, l’accoglienza e il rifiuto dell’altro da sé? Ci sono. Cerchi rimandi colti ad altre opere cinematografiche? Ci sono anche quelli. Cerchi un film documentario sull’architettura brutalista, come annuncia perfino il titolo? Ecco, questo esattamente non c’è.
Inevitabilmente tutto perfetto non poteva risultare. Tra le accelerazioni e cadute di ritmo, alcune scene che in un altro film sarebbero state un semplice collegamento narrativo, rimangono fisse nella memoria, impresse e non conficcate. Lo sbarco a Ellis Island con l’iconica immagine della Statua della Libertà rovesciata. La carrellata sul sontuoso ricevimento nella villa Van Buren tra simboli di un lusso così ostentato che qualcosa di tremendo doveva coprire. La sequenza del disastro ferroviario che si interseca con l’atmosfera di apparente serenità finalmente raggiunta. La sequenza durante la festa di paese a Carrara dove Lazlo inconsapevole si inebriava di vita mentre in Harrison montava l’invidia e la prevaricazione. La cerimonia della premiazione alla Biennale in cui una Sofia cresciuta e irriconoscibile celebra la carriera e il punto d’arrivo del protagonista, mentre Raffey Cassidy (l’attrice che aveva interpretato Sofia giovane) ora compare nei panni di una nuova nipote — escamotage già visto nei film di Corbet — a significare una resilienza che supera la vicenda personale del protagonista e si riflette in quella familiare. Tutto è così “pensato” e abilmente incastrato, che quelle che sembrano sbavature puoi sospettare di essere tu a non averle ben comprese.
Come venirne a capo di un lavoro così complesso? come assicurarsi di aver considerato tutti gli elementi essenziali? come trovare una chiave interpretativa valida per una materia non ordinata e non ordinabile?
In questo articolo propongo la mia chiave interpretativa del film, quella che a mio parere enuclea il messaggio principale, pur consapevole che i molti piani di lettura lasciati a lato potrebbero rivelarsi anche più “intellettualmente affascinanti” (cit.).
L’analisi del film è stata condotta con l’ausilio dell’AI, per maneggiare meglio l’ampio materiale disponibile in rete, anche se non veramente sufficiente, e quello ancora più vasto e articolato emerso dal mio animo di spettatore. Ne è risultata così più rapida, ma non avrebbe potuto essere generata dall’AI autonomamente. Per questo trova un posto meritato in questa newsletter.
A dispetto del titolo, The Brutalist non è propriamente un film sull’omonimo movimento architettonico. Il brutalismo assunto a tema centrale del film è quello della vicenda umana del protagonista, prima come immigrato, poi come artista e infine come uomo. Brutalista è quindi l’uomo moderno, in preda alla hybris di determinare il proprio destino e realizzare opere destinate a sopravvivergli, al costo però di perdere la propria umanità, le gioie del presente, la connessione con i propri sentimenti più naturali.
2. Il Brutalismo architettonico come innesco
Certamente il protagonista è un architetto divenuto celebre con opere che si rifanno ai canoni del brutalismo, e il mausoleo, la cui costruzione è il passaggio chiave di quasi tutto il film, ne dovrebbe essere una testimonianza esemplare. Ma si tratta solo di un pretesto, anche se Corbet ha ricordato in un’intervista lo zio architetto che aveva studiato con Frank Lloyd Wright a Taliesin West, in Arizona.
Lo confermano quasi tutti i riferimenti all’architettura, che in realtà sono solo elementi utili alla narrazione, e non fanno del film un documentario su quella scuola. Il nome László Tóth è quello di un operaio e criminale ungherese, naturalizzato australiano, realmente esistito e divenuto noto per aver vandalizzato la Pietà di Michelangelo nella basilica di San Pietro il 21 maggio 1972. Il protagonista architetto ha già potuto esprimere il proprio stile con successo in opere realizzate prima della guerra, mentre il brutalismo in architettura inizia ovviamente dopo.
Nessun architetto che sia stato un reale esponente di quel movimento è precisamente associato alla figura del protagonista. Marcel Breuer, ungherese, ha alcuni tratti biografici in comune con László Tóth (studi al Bauhaus, fuga dai nazisti negli USA) e ha progettato l’Abbazia di St. John in Minnesota in cemento armato, però con soluzioni stilistiche molto lontane dal Van Buren Institute, il mausoleo commissionato dal magnate nel film. Paul Rudolph, americano, è stato un precursore del brutalismo d’oltreoceano, anch’egli con una carriera segnata da alti e bassi, ma le analogie finiscono qui.
Pochissimi sono i riferimenti alle scelte artistiche dell’architetto Lazlo: l’effetto luminoso che porta la luce a mezzogiorno a disegnare una croce al centro della navata e il rapporto base-altezza dei locali accessori, che esprime la costrizione nelle celle del lager e la tensione verticale alla libertà come simbolo di resilienza. Discutibile sul piano stilistico, il rapporto tra la plastica imponenza dell’edificio nel suo insieme e la dolcezza delle colline dove sarebbe stato collocato, ha sollevato forti dubbi sulle ricerche del regista per approfondire il contesto artistico del film.
3. Il brutalismo come metafora della vita di László Tóth
Il brutalismo nel film può essere riferito invece alla crudezza della vita del protagonista, brutalizzato prima nei lager nazisti, e poi dallo stesso magnate che, offrendosi come mecenate, lo tratterà con un mix morboso di invidia e disprezzo. László Tóth è chiaramente affetto dalla sindrome di Stoccolma, che lo rende incapace di liberarsi dai segni e dalle costrizioni che gli hanno inferto i nazisti in patria e il magnate in America, fino al punto da trasformarsi egli stesso, imbruttendosi nei confronti delle persone a lui più care. Una crudezza dalla quale trae linfa la tensione artistica verso un’opera suprema, e che finisce per essere alimentata da quella stessa tensione.
Causa di questo brutalismo è l’esercizio del potere da parte del mecenate, che prima lo invidia, lo adula, e poi ne desidera la sconfitta morale. È il potere del denaro, quindi della ricchezza, ma anche quello della mancanza di empatia (di cui Harrison si vanta insistendo sul modo con cui ha trattato i suoceri in difficoltà economiche). Altro esempio è il tradimento della moglie del cugino Attila, simbolo di una società borghese e ipocrita, che inizialmente ne rimane affascinata, ma poi riesce ad allontanarlo mentendo sulla sua integrità. Altro ancora, l’antagonismo del collega architetto, che interferisce nel geniale disegno del mausoleo senza comprenderne la potenza simbolica.
Di fronte a queste dinamiche ostili, l’architettura brutalista di László, essenziale e spoglia, assurge a filosofia di vita: trasformare l’imponenza soverchiante delle forme plastiche di cemento grezzo, in un edificio che simboleggi la determinazione a esistere e resistere nel tempo, contro ogni ingiuria subita per opera degli uomini e del destino. Ma l’opera che il mecenate tiranno ha commissionato all’architetto diventa la trappola in cui cadono entrambi, come a suggellare che dal brutalismo nessuno si salva.
Solo per l’architetto l’operazione brutalista si compierà alla fine, quando la sua carriera di artista sarà riscattata. Ma egli vi potrà presenziare senza poterne godere pienamente, prostrato nel fisico, e ormai nemmeno veramente cosciente, dopo una lunga vita di sofferenze. Per lui la consolazione che i propri familiari più stretti, ne erediteranno il lascito così faticosamente costruito.
Al contrario, il magnate si perderà nei sotterranei del mausoleo, uscendo di scena senza nemmeno la dignità di un riconoscimento postumo. Qui, probabilmente, risiede la spiegazione della musichetta che chiude il film: One for you, one for me.
4. L’hybris dell’artista e del regista stesso
Allargando la messa a fuoco, il brutalismo di Lazlo può essere letto evidentemente in chiave autobiografica. Anche Corbet, come Lazlo, artista incompreso, ha attraversato sette anni di ostacoli e difficoltà per girare il film, e alla fine, ha deciso di investire finanziariamente in prima persona per salvaguardarne la realizzazione secondo la propria arte.
Alla Biennale di Venezia, durante la premiazione alla carriera di László Toth, sua nipote Sofia ricorda una frase che lo zio le ripeteva spesso: “Non conta il percorso ma la destinazione”. Una frase che sovverte il principio riconosciuto secondo cui il viaggio, ovvero la vita, e le esperienze vissute lungo il cammino, hanno un valore intrinseco e garantiscono equilibrio e benessere preziosi almeno quanto il raggiungimento degli obiettivi prefissati.
La versione rovesciata, usata nel film, esprime una visione del mondo estremamente cruda e disillusa, in cui viene negato il valore alla vita stessa nel suo svolgersi, subordinandola completamente al risultato finale. Una visione che non potrebbe essere scelta ma solo subita.
Viene il sospetto che questa visione rovesciata sia anche quella di Corbet. Il film è caratterizzato da una grandezza epica, confermata da numerose prove. Dalla durata di 215 minuti: tre blocchi con una pausa di 15 minuti in mezzo. Dalla lavorazione durata sette anni, affrontando enormi difficoltà finanziarie. Dalla pellicola VistaVision, quasi mai usata dopo il 1961, con la quale Marlon Brando girò I due volti della vendetta. Dalla storia che si sviluppa nell’arco di 30–40 anni, partendo dalla fine della guerra in Ungheria a New York, da Philadelphia alle campagne della Pennsylvania, con passaggi a Carrara e Venezia.
I personaggi (soprattutto la figura dell’architetto Lazlo e del magnate Harrison) sono cristalli dalle mille facce, e il fascio di luce li illumina via via da un’angolatura diversa, mettendo in risalto i tormenti interiori, gli atteggiamenti pubblici, le scelte di fronte alle grandi sfide della vita, come anche i dettagli apparentemente insignificanti della loro quotidianità. La loro potenza simbolica li rende figure archetipiche, rappresentanti di forze naturali, morali o culturali più grandi dell’individuo stesso.
In questo passaggio dal micro al macro, e ritorno, il film sembra generato da una voracità senza fondo, che divora ogni elemento utile alla narrazione. Sempre con una fotografia e un sottofondo musicale che si rivelano anch’esse voci narranti, per il tono freddo e dimesso, mai artificialmente ritoccato, e anzi spesso crudo e pesante, come esige il brutalismo che aleggia in tutto il film. Quella curiosità vorace che ha spinto il regista a usare l’AI per adattare l’accento di Adrien Brody (efficacemente) e Felicity Jones (meno) a quello dei rispettivi caratteri ungheresi.
Per Corbet, The Brutalist sembra proprio il film di una vita: un’opera imponente che lo ha portato ad un soffio dalla dannazione. Già premiato con il Leone d’argento e due Golden Globe, il film rivela un ambizione che si può immaginare punti molto in alto: alla consacrazione con l’Oscar — il film ha ricevuto dieci nomination — se non a rimanere una pietra miliare nella cinematografia. Possibilmente, il suo memoriale, contemporaneamente opera d’arte e monolite sempiterno: la sua opera brutalista.
Nelle ore in cui sto scrivendo questo articolo, stanno assegnando i premi Oscar 2025, e per il 36enne Brady non è ancora giunto quel momento. Adrien Brody ha vinto l’Oscar per il Miglior Attore Protagonista, e al film sono stati assegnati anche quello per la Migliore Fotografia e Miglior Colonna Sonora.
6. Il brutalismo, cifra dell’uomo moderno
Questa stratificazione di piani di lettura non si ferma qui, e in un certo senso, proprio all’indomani della notte degli Oscar, è impossibile non percorrere l’ultimo passaggio. Le aspirazioni di Lazlo in fuga dai lager nazisti, e di Corbet in fuga dai produttori delle major, si scontrano con la fredda e cinica società moderna, che prima lusinga con la promessa della massima realizzazione di sè, e poi stritola coi suoi spietati meccanismi di potere, che non lasciano spazio di manovra per emergere.
Nel primo caso, il conflitto chiama in causa l’ipocrisia della società americana del dopoguerra, borghese e conservatrice, affascinata dall’arte ma profondamente materialista, che promette il sogno della libertà ma ne esclude gli immigrati.
Nel secondo caso, invece, Corbet deve scontare il suo spirito indipendente, che l’ha portato presto a diventare un outsider nel sistema hollywoodiano. Inoltre i suoi film indagano spesso temi di sfruttamento e oppressione, come in The Childhood of a Leader e Vox Lux, e ora The Brutalist, in cui il talento individuale è soffocato da strutture di potere.
Il film sembra arrivare qui ad esprimere il suo messaggio universale. L’inseguimento ossessivo di uno scopo nella vita può svuotare di significato tutto il resto, con vantaggi e svantaggi. Può annullare le sofferenze per i soprusi e le perdite, ma al prezzo di rinunce e abbandoni.
L’hybris dell’artista, allora, è solo un caso. Tutti gli esseri umani, soprattutto in questa fase storica, sono potenzialmente preda del furore nella realizzazione di se stessi e cercano di rendersi artefici di opere che possano sopravvivere alla loro morte. Tutti, Corbet in testa, ma un po’ anche noi, siamo in fondo brutalisti. Perché brutalista è la cultura e la scala di valori che sembrano caratterizzare la società contemporanea.
Da questo punto di vista, il film è particolarmente attuale, riflettendo una società americana che sta esprimendo nel suo complesso, e attraverso i suoi più alti rappresentanti, mai come fino ad ora, una visione del potere sempre più opportunistica e concentrata su interessi economici. Una cultura sempre più cinica e disillusa, in cui l’empatia trova sempre meno spazio, e le dinamiche di potere si fanno sempre più aggressive.
Lo si vede nell’ascesa di modelli economici ultra-liberisti che privilegiano la competizione a ogni costo, nella crescente polarizzazione politica e sociale, e nella pervasività dei social media, che spesso premiano retoriche divisive a scapito della riflessione critica. Un fenomeno che non è purtroppo confinato agli USA, ma si riverbera nel mondo con sempre maggiore diffusione e drammatiche conseguenze. Un brutalismo universale.
Ma cosa succede se la destinazione non viene mai raggiunta? O se, una volta arrivati, ci si rende conto che non è così appagante come si pensava?
Cosa succede se il lavoro di Corbet non viene riconosciuto con l’Oscar?
Riporto qui la dichiarazione di Adrien Brody nel ricevere la statuetta: “Questo premio mi ricorda che quando arrivi al punto più alto, devi sempre ricominciare da capo”.
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